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Un velo sulle macerie






Chi ha letto questa rubrica la settimana scorsa può confermare che ci avevamo preso sull’esito delle elezioni. D’altronde non era certo difficile immaginare la vittoria del centrodestra, come non era impresa ardua fare altre previsioni: il tonfo clamoroso del Pd, la rimonta importante di Conte, l’influenza mediocre del “Terzo Polo” finito sesto, l’umiliante zero virgola di Di Maio.

L’Italia torna a destra, ma in realtà la svolta vale solo in chiave governativa, perché i consensi nel Paese verso questa ala politica sono in fondo rimasti sempre costanti; a cambiare sono gli equilibri di coalizione, con Fratelli d’Italia che prosciuga l’elettorato della Lega e balza al record del 26%. Giorgia Meloni andrà dunque a Palazzo Chigi.

Non c’è da stupirsi, sebbene faccia un po’ effetto vedere a cent’anni dalla marcia su Roma una post fascista ascendere alla guida dell’esecutivo. FdI porta nel simbolo la fiamma che arde sulla tomba di Mussolini, e soprattutto propone una classe dirigente in cui i fascisti (il termine post è qui inopportuno) abbondano: l’ultimo fulgido esempio è il fratello di Ignazio La Russa, Romano, che quantunque ricopra pure la carica di Assessore alla Sicurezza in Regione Lombardia ha pensato bene di alzare il braccio teso al funerale di un vecchio missino.






I tempi che ci aspettano saranno senza dubbio difficili, ma questa gente non ristabilirà una dittatura, e non ha vinto perché ha promesso olio di ricino ai comunisti e nuove leggi razziali. A fare la differenza è stata un’identità chiara e definita unita alla furba scelta di rimanere fuori dall’ammucchiata che sostenuto Mario Draghi. Prima che il Migliore arrivasse a Palazzo Chigi la Meloni era al 15%, e se il governo fosse durato fino al 2023 probabilmente avrebbe raggiunto anche il 30, checché ne dica il povero Letta che a spoglio terminato ha dato la colpa a Conte del trionfo meloniano.

La coalizione di centrodestra è la stessa robaccia che abbiamo imparato a conoscere fin dal 1994, e la Meloni non sarà una premier peggiore di quanto non sia stato quel pregiudicato, corruttore, finanziatore di Cosa Nostra di Silvio Berlusconi, fino a qualche mese fa candidato al Quirinale senza che il centrosinistra si azzardasse a definirlo in altro modo che divisivo. Già, il centrosinistra. Ogni volta che c’è un grande vincitore c’è sempre un grande sconfitto.

Stavolta questo ruolo tocca al Partito democratico, trascinato al minimo storico dal proprio segretario che a forza di inseguire l’Agenda Draghi ha perso talmente tanti voti da aver raggiunto il peggior risultato in quindici anni di storia del Nazareno. Non pago di una campagna elettorale trascorsa a esporsi quotidianamente al pubblico ludibrio, il nipote di Gianni ha chiuso in bellezza puntando il dito non contro se stesso e la decisione di chiudere ad ogni alleanza con Conte, bensì contro quest’ultimo reo di aver fatto cadere Draghi. Una meraviglia.

Quantomeno Letta ha avuto la decenza di annunciare le dimissioni e la convocazione di un nuovo congresso, al termine del quale (o anche prima) ci si augura che si imbarchi sul primo volo per Parigi e non metta mai più piede nell’agone politico italiano. Se i dem non attueranno una metamorfosi profonda tuttavia sarà del tutto inutile l’elezione di un nuovo segretario, che rischia di divenire l’ennesimo fantoccio incapace (Dio ci scampi e liberi dal favorito, Stefano Bonaccini) alla guida di un carrozzone putrescente che tieni i voti solo dei ceti benestanti delle grandi città.






La vecchia classe dirigente, in gran parte retaggio degli anni terribili del renzismo, va spazzata via; con alcuni soggetti hanno intanto dato una bella mano gli elettori, fantastici nel bocciare nomi tremendi come Marcucci e Romano, ma non basta. Ci vuole un cambio di mentalità profondo, un ritorno ai veri temi della sinistra, un progetto di ampio respiro che muova dalla ripresa del dialogo con il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, ad oggi unica forza capace di attrarre milioni di voti parlando di lavoro, legalità, diritti, pace e giustizia sociale.

Si deve ripartire, dentro e fuori dal Parlamento, dall’opposizione, parola nobile da anni sconosciuta ai democratici. C’è un’enorme fetta di italiani che non si sente rappresentata, e che infatti non è andata a votare: peggior dato sull’affluenza della storia repubblicana. Buona parte di queste persone vive – o si troverà presto a farlo – in difficili condizioni economiche, si sente impaurita dallo scenario internazionale, dai rischi di una guerra globale, dalle conseguenze del cambiamento climatico.

E’ a loro che prima di tutto bisogna parlare, dimenticandosi dei meeting di Comunione e Liberazione, degli editorialisti di Repubblica, dei segretari della Nato o di gente come Renzi e Calenda. Tutto è crollato e le macerie sono ovunque di fronte a noi. Non si può che cominciare a ricostruire, se vogliamo un futuro diverso da quello a cui sembriamo fatalmente destinati.

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