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Un anno in una bolla.

Un anno in una bolla di vita.
Un anno fa entravamo in un tunnel sconosciuto dal quale ancora non siamo usciti e, detto francamente, chissà quando vedremo l’uscita. Tutta l’Italia entrava in una sottospecie di bolla di vita, uno standby obbligato, uno stop psicofisico che non dimenticheremo mai.
Iniziava il lockdown, iniziavano i DPCM, iniziavano i paesi silenti, le piazze vuote, le case erano nido e fuori c’era il pericolo.

Abbiamo imparato a conoscere il suono del silenzio, quello che cantano Simon & Garfunkel. Ricordo di essermi affacciata tante volte alla finestra per cercare il suono della quotidianità di via Paolieri ma non lo trovavo, tendevo le orecchie ma niente, le macchine non passavano, i bandoni non venivano tirati su, non sentivo quelle voci allegre di saluti conviviali. C’era silenzio in tutta Italia. C’era silenzio in Toscana. C’era silenzio al paesello. 
Ricordo la coda che feci la prima volta alla Coop; nel frigo mi erano rimasti solo dei pomodori, uno yogurt e un limone, dovevo per forza andare a fare la spesa. Andai dopo pranzo, mi munii di guanti, gel e mascherina. Arrivai alla curva prima del parcheggio della Coop e mi misi in coda, zitta e buona. Faceva caldo, era un Marzo anomalo, una Primavera mai vista prima. La natura sbocciava mentre noi eravamo chiusi in casa, sembrava proprio che volesse dirci “lo vedi, umano, come sei inutile per me? Io mi evolvo lo stesso.”

C’era un cielo meraviglioso quel pomeriggio della mia prima coda alla Coop, davanti e dietro di me, a debita distanza, vi erano persone che conoscevo anche solo di vista, gente di paese, eppure in quel momento mi parevano tutti estranei. La mascherina copriva metà volto ed ancora non avevamo capito come si faceva a sorridere con gli occhi, solo più tardi ci siamo abituati ed abbiamo imparato a farlo. 
Non muovevo un passo se prima, la persona davanti a me, non avanzava. Ci stavano iniziando a bombardare a livello mediatico, quel distanziamento sociale che ancora viviamo ci ha allontanati un po’ tutti, ci ha chiusi in una bolla di vita. Facevo quello che mi veniva detto, col carattere che mi ritrovo io ho sempre fatto di testa mia, eppure da quel momento in poi ho imparato ad eseguire, un po’ come un soldatino. Non so se è giusto o sbagliato, in ogni caso andava fatto.

Nell’attesa della coda feci vagare il mio sguardo verso destra, nella vallata, quel luogo così familiare che profumava di Primavera. Sporgendomi un po’ intravidi il castello di Cafaggio, c’erano le case, le finestre aperte, gli uccellini cinguettavano e godevano della loro libertà, quella libertà che noi non avevamo più. Mi resi conto di quanto fosse effimera la vita, “noi non siamo veramente niente”, pensai, “ci crediamo chissà chi ma non siamo un fico secco”. Poi mi dissi che ero molto fortunata, ero in coda alla Coop, in piedi, respiravo, c’era una campagna bellissima davanti ai miei occhi e vivevo in un bel paesino, coi suoi problemi e le sue polemiche ma in quel momento mi resi conto di quanto fosse bello poter vivere all’Impruneta.

Quando arrivò il mio turno entrai, quasi intimidita, nonostante fosse un luogo più che familiare.
Mancavano tante cose, il lievito era quasi sempre introvabile, mezzi scaffali erano vuoti ed in quel momento storico abbiamo capito che le penne lisce non piacciono a nessuno.
Siamo ancora qua.
Siamo ancora con le mascherine, col gel e coi guanti.
Probabilmente tornerò a fare la coda alla Coop. Mi ricorderò di far vagare il mio sguardo nella vallata a destra, fa bene al cuore.
Siamo ancora qui, siamo ancora in una bolla di vita.

Silvia Colombi

Per molti “scrivere” è solo un semplice verbo transitivo della seconda coniugazione, per me invece è un bisogno, è pura passione. La sensazione di tenere la mia penna preferita tra le dita è una delle cose migliori, rientra nella mia “top 3” insieme al gelato e ad un buon libro dalle pagine un po’ ingiallite. Ognuno ha una propria “fissa”, la mia è scrivere e raccontare, perché quando la penna mi chiama…io rispondo.

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