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Perchè Paolo non si arrabbiava mai

Chi lo ha visto lo sa. Nel 1982 in Italia iniziavano gli anni Ottanta e finivano ufficialmente i ’70, il decennio della paura, del terrorismo, dei vecchi fantasmi del passato che stavano tornando a inquietare la quotidianità nostrana. Poi, il 1982 e la svolta: non è stato un cambiamento politico, non è stato un colpo di Stato, non è stata l’elezione di un Presidente della Repubblica. Nessuno di questi eventi ha spostato gli equilibri culturali e sociali nel nostro Paese come il Mundial in Spagna.

Un mese di caldo insopportabile, segnato per sempre dalla consacrazione di Paolo Rossi. Pablito, l’attaccante che non si faceva notare, assurto alla gloria imperitura e icona dell’italianità vincente nel mondo. Bomber del destino, lui che veniva da Prato e che era cresciuto con la maglia della Cattolica Virtus a Firenze, inevitabile rappresentazione del working class hero che ci ha lasciato stanotte, a soli 64 anni, per un male incurabile che lo tormentava da tempo.

Paolo Rossi è stato una tripletta, quella al Brasile, che in un futuro (ci auguriamo) non troppo lontano i nostri figli studieranno sui libri di storia come uno di quei giorni in cui l’Italia intera fu davvero unita. Tre gol che gli costarono l’odio della nazione carioca, se è vero che un tassista brasiliano una volta gli ordinò addirittura di scendere dalla macchina, rifiutandosi di portarlo a destinazione. Ma Paolo non si arrabbiò.

Perchè Paolo Rossi non si arrabbiava mai: toscano ma non fumino, calciatore ma non arrogante, intelligente ma non malizioso. Lui la malizia ce l’aveva solo negli ultimi sedici metri, come contro la Germania, quando rubò un metro a tutta la difesa infilando Schumacher per il gol che ci avrebbe avvicinato alla Coppa più bella del mondo.

Paolo non era malizioso. Per questo non fece polemiche eccessive dopo lo scandalo Calcioscommesse che nel 1980 lo aveva costretto a due anni di squalifica che lui preferì trascorrere ad allenarsi con la Juve piuttosto che a scagliare frecce avvelenate nei confronti della giustizia sportiva.






E non si arrabbiava. Nemmeno coi giornalisti, che misero in croce giocatori, staff tecnico, dirigente e magazzinieri di una Nazionale che sembrava la brutta copia dell’Armata Brancaleone: tre gare nel girone mondiale, tre pareggi. Ripescati solo grazie al meccanismo delle migliori terze. Quel giugno 1982 era un inferno e non solo sul piano della temperatura.

Poi si svegliò Paolo Rossi. Magro, non altissimo, uno di quelli che vuol far di tutto per non farsi notare, e proprio per questo diventa icona di una generazione. Sei gol nelle successive gare, fra Brasile, Polonia e Germania, una Coppa riportata in Italia per la prima volta dai tempi del regime.

Ecco perchè con le braccia al cielo di Paolo Rossi sono iniziati ufficialmente gli anni Ottanta. Perchè Paolo è stato il simbolo della vittoria degli umili, self made man per eccellenza, lui che prima dell’avventura Mundial era un buon attaccante e nulla più, e quell’anno riuscì addirittura a vincere il Pallone d’Oro. Con Paolo Rossi iniziò il decennio della speranza, delle meravigliose illusioni, della bellezza. Un decennio che sarebbe ufficialmente terminato, nella storia italiana, con il Mondiale del 1990. Ma questa è un’altra storia.

Quella di Paolo è stata una storia romantica, ma dal finale malinconico: tanti anni da commentatore televisivo per Sky, Mediaset e la Rai, un ruolo non suo, forse troppo appariscente per uno che come attività preferiva produrre il vino nella tenuta di Bucine, in un terreno che aveva trasformato in agriturismo, meraviglioso locus amoenus di alienazione e ricordi, poesia e riflessione, semplicità e famiglia.

Come quella notte afosa del 1982, quando l’Italia si ricordò finalmente di essere un Paese unito e non più un arcobaleno di sangue.






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