Nel “decadentismo” toscano: una domenica a Toiano, paese fantasma
Una delle cose che troppo spesso ci pare di aver smesso di fare è pensare. La frenesia, la concentrazione sul quotidiano, le ansie di apparire, nonché un dilagante disinteresse per ciò che ci circonda, spengono la nostra mente con una progressione che preoccupa. Per pensare bisogna innanzitutto fermarsi, rallentare. E leggere. Ci sono autori capaci più di altri di mettere in moto il pensiero, un po’ per la capacità di scrittura e ancor di più per i contenuti che la loro penna riesce a tirare fuori. Uno di questi è Tiziano Terzani.
La definizione di scrittore è riduttiva per questa straordinaria, eclettica figura: giornalista, e ancor di più viaggiatore, come una volta disse che avrebbe voluto scritto sulla sua tomba, Terzani è stato un protagonista del Novecento, un uomo del suo tempo capace di attraversare la Storia e le esperienze umane con uno sguardo curioso e mai banale. A quasi vent’anni dalla sua morte, avvenuta nel 2004 nella frazione di Orsigna sull’Appennino pistoiese, Terzani manca terribilmente. Le sue riflessioni, il suo sguardo sul mondo, la sua esperienza di vita sarebbero una boccata d’ossigeno nella satura contemporaneità che viviamo; non possiamo più interrogarlo dal vivo, ma abbiamo i suoi scritti, i suoi libri, la testimonianza di un percorso che è ancora carico di insegnamenti.
Sebbene fiorentino di nascita, identità che si è sempre portata dietro e che a tratti si manifesta tra le righe anche nella prosa, Terzani ha legato gran parte della propria vita all’Asia, continente in cui ha vissuto per trent’anni spostandosi continuamente nelle sue infinite diversità. Vi giunse nel 1971, dopo alcuni anni negli Stati Uniti trascorsi a studiare e a conoscere, insieme alla moglie e grande amore Angela Staude, la pancia più profonda dell’America; Singapore fu la base da cui partì per raccontare, come corrispondente di Der Spiegel, la guerra in Vietnam, con i reportage coraggiosi che non lasciano spazio alla narrazione di facciata.
Da lì poi la Cambogia di Pol Pot, la Cina comunista – infatuazione giovanile che gli mostrerà poi il lato feroce e oscuro con l’arresto e l’espulsione dal paese – la Thailandia, il Giappone, l’India, la più amata delle terre d’Asia. Buona parte degli scritti che Terzani ci ha lasciato sono legati alla sua vita di giornalista errante, come “In Asia”, “Un indovino mi disse”, o “Buonanotte, signor Lenin”, racconto sulla caduta dell’impero sovietico vissuta in prima persona durante un viaggio che dalla Siberia lo condusse poi a Mosca.
Ogni parola che ci ha lasciato è carica di bellezza, e di spunto. Uno degli scritti più attuali è probabilmente “Lettere contro la guerra”. Dopo gli attentati terroristici dell’11 Settembre 2001, il giornalista fiorentino scrisse una serie di epistole per invitare l’umanità a non farsi travolgere dagli istinti di odio e violenza: “fermiamoci, riflettiamo, prendiamo coscienza. Facciamo ognuno qualcosa”.
Terzani descrive l’Afghanistan martoriato dalle bombe americane, racconta i talebani in maniera molto diversa- seppur mai indulgente -rispetto alla propaganda occidentale, arriva persino a indagare le ragioni e i pensieri dei combattenti della jihad: non per giustificare, ma per capire. Una lezione che dovremmo tenere sempre a mente anche nella vita privata. Nella più famosa delle lettere, quella inviata ad Oriana Fallaci dal titolo “Il Sultano e San Francesco”, Terzani demolisce l’idea dello scontro di civiltà cara all’amica giornalista “chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo” di New York, e la invita a dubitare, perché “il dubbio è il fondo della nostra cultura”.
L’odio non può essere combattuto con altro odio, e alla violenza non si può rispondere con la violenza, convinti comunque che i civili morti a Kabul per il cosiddetto effetto collaterale delle bombe contro Al Qaida abbiano meno valore di quelli caduti al World Trade Center. La via delle pace, del dialogo e della cessazione degli investimenti militari indicata da Terzani appare di straordinaria attualità vent’anni dopo, al tempo del conflitto in Ucraina.
L’impegno antibellico tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 fu l’occasione che fece momentaneamente scendere Terzani “in pianura”, come egli definiva il ritorno al mondo dalla capanna sull’Himalaya indiano in cui si era ritirato da qualche tempo: infatti dopo essere stato colpito alcuni anni prima da una grave malattia, il giornalista iniziò un percorso sia medico, tra cure tradizionali e medicine alternative, sia spirituale che lo portò dagli Stati Uniti all’India, da Hong Kong alla Thailandia, fino all’approdo finale sulle cime himalayane dove l’incontro con un vecchio saggio lo convinse a ritirarsi in solitudine per trovare finalmente dentro di sé quella quiete che a lungo aveva cercato fuori.
Il racconto di questa esperienza è al centro di “Un altro giro di giostra”, l’ultimo vero viaggio di Terzani; un libro bellissimo, una riflessione profonda sulla malattia, sul senso della vita e sul rapporto di questa con la morte, vista non come il male assoluto ma come nient’altro che un aspetto necessario di quel tutto di cui siamo parte. Verso la fine, così scrive:
“A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un bene o un male? E’ stato, e questo è l’importante. E’ stato, e con questo mi ha aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto, non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano. […] Vivo ora, qui, con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente, mai ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra”.