Il 25 giugno 1992 la biblioteca comunale di Casa Professa a Palermo, nel quartiere Ballarò, era stracolma. Paolo Borsellino arrivò in ritardo, stremato dall’ennesima giornata di lavoro incessante ma deciso a non venir meno alla parola data. Quella mezz’ora di intervento rappresentò il suo ultimo discorso pubblico prima della strage di via d’Amelio, e insieme al ricordo appassionato dell’amico Giovanni Falcone, scomparso poco più di un mese prima, Borsellino dichiarò ciò che d’altronde era evidente fin da subito dopo Capaci: sono un testimone, e ciò che so riguardo a Falcone e alla strage che gli è costata la vita sono pronto a riferirlo all’autorità giudiziaria. Dalla procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra nessuno però lo chiamò mai in quei 57 giorni, ed è da qui che bisogna partire per ricostruire quell’intreccio perverso tra Stato e mafia che portò il magistrato a saltare in aria il 19 luglio 1992 insieme agli agenti di scorta Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima agente donna della Polizia a morire in servizio.
Paolo Borsellino andò incontro alla morte da solo, consapevole dell’inevitabile destino che lo attendeva; era di “un’altra tempra”, come ebbe a dire Antonino Caponnetto, e adempì ai suoi doveri di uomo delle istituzioni sfidando il tempo che si accorciava e lavorando giorno e notte, mentre in quei 57 giorni quello Stato che per anni aveva servito con abnegazione gli si mostrava nella inaspettata veste di realtà collusa e pronta a trattare con la mafia. Borsellino, che non fu neanche avvisato dai suoi superiori quando il tritolo per lui arrivò a Palermo, aveva raccolto molti elementi sulla strage di Capaci, sugli intrecci, i perversi interessi convergenti, e aveva capito che per fermare le bombe qualcuno nello Stato era pronto a scendere a patti con Cosa Nostra. Rimase a combattere da solo, e non ebbe quella protezione che avrebbe dovuto avere, a cominciare dalla richiesta mai accolta di non far sostare le auto sotto la casa della madre in via d’Amelio. Celebrare ogni anno il 19 luglio vuol dire tenere a mente in primis questi aspetti, per sfuggire dalla vuota retorica di chi si limita ai bei discorsi eliminando la verità dalla narrazione: quella stessa verità che ancora oggi, a distanza di ventinove anni, sfugge in merito ai mandanti occulti e a tanti altri aspetti della strage. Come hanno affermato i giudici nelle motivazioni della sentenza del Borsellino quater, su via d’Amelio si è assistito a “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Le indagini che furono avviate sin dal luglio 1992 da Tinebra, dal numero tre dei Servizi segreti Bruno Contrada e dal Capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera – a libro paga del Sisde col nome in codice Rutilius – portarono alla condanna del falso pentito Vincenzo Scarantino, indotto ad autoaccusarsi dopo violenze fisiche e psicologiche. Ci sono volute le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nel 2008 per smontare le bugie di Scarantino, ma troppe domande rimangono senza risposta: chi rubò l’agenda rossa di Borsellino e come mai il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, come testimonia la famosa foto, sottrasse la borsa che conteneva l’agenda pochi minuti dopo la strage? Chi premette il detonatore e da dove? Forse dal castello Utveggio, sede occulta del Sisde? Chi era l’uomo misterioso non appartenente a Cosa nostra che Spatuzza dice di aver visto nel garage in cui fu imbottita di esplosivo la Fiat 126? Come facevano i mafiosi a sapere gli orari e gli spostamenti esatti di Borsellino di quella domenica? Questi ed altri buchi neri si aggrovigliano in una delle più grandi vergogne del nostro Paese, e perciò ogni 19 luglio non può che esserci davanti a tutto un forte grido di rabbia e di richiesta di giustizia, come quello che da anni il fratello di Paolo, Salvatore, lancia insieme ai ragazzi del Movimento delle Agende Rosse. Il sacrificio di Borsellino e degli angeli che lo proteggevano non è però stato vano. Tremano le gambe a pensare al senso del dovere e al coraggio con cui questo servitore dello Stato andò incontro alla morte, e l’esempio suo e di tutti coloro che hanno combattuto la criminalità organizzata ci rende cittadini consapevoli e non indifferenti. Il riscatto morale contro la mafia parte proprio da noi giovani, come lo stesso Borsellino sapeva e disse durante la fiaccolata in memoria delle vittime di Capaci: “… le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.