Notizie in Tempo Reale dal Territorio

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Temi del momento

C’ERA UNA VOLTA A PALERMO






“Non avrebbe voluto diventare un eroe, Giovanni Falcone. Perché era convinto che uno Stato tecnicamente attrezzato e politicamente impegnato potesse sconfiggere il crimine organizzato facendo a meno di tanti sacrifici individuali”.

Marcelle Padovani inizia così la nota introduttiva all’edizione del 1995 di “Cose di Cosa nostra”, il libro-intervista che la giornalista realizzò con il giudice nel 1991. Non avrebbe voluto, ma lo è diventato. Ci vollero 500 chilogrammi di tritolo posto in un cunicolo sotto l’autostrada Palermo-Trapani, all’altezza di Capaci, per fermare la lotta antimafia di Giovanni Falcone.

Il 23 Maggio 1992, ventinove anni fa, il telecomando azionato a distanza da Giovanni Brusca fece saltare in aria il giudice, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro; uscirono feriti gli agenti Angelo Corbo, Giuseppe Costanza, Gaspare Cervello e Paolo Capuzza.

Nel cratere creato dall’esplosione affondarono tutte le vergogne di un’Italia che stava cominciando a vivere la fase più tragica della storia repubblicana: la strage di via d’Amelio il 19 luglio e le bombe sul continente a Firenze, Roma e Milano nel 1993 saranno il culmine di una escalation di violenza iniziata con l’omicidio del colluso eurodeputato Dc Salvo Lima il 12 marzo 1992, il primo segnale con cui la mafia avvertiva lo Stato che il banco era saltato dopo che nel Gennaio dello stesso anno la Corte di Cassazione aveva reso definitive le condanne del Maxiprocesso.






Lo Stato non riuscì a proteggere quei servitori che per senso del dovere e “spirito di servizio”, come diceva Falcone, avevano rivoluzionato il contrasto alla mafia e gettato le basi per una nuova conoscenza e coscienza del problema mafioso. Proprio Falcone, insieme a Paolo Borsellino e agli altri giudici del Pool ideato da Rocco Chinnici, aveva istituito nel 1986 il Maxiprocesso che portò sotto giudizio 475 uomini d’onore, dopo che le rivelazioni fatte allo stesso Falcone da Tommaso Buscetta avevano permesso ai magistrati, nella lotta a Cosa nostra, di “smetterla di andare dai Turchi e parlare a gesti”.

La storia di Giovanni Falcone fu però da lì in avanti una storia di delusioni, sconfitte e amarezze. Falcone fu avversato dai colleghi, dalla politica, dai giornali, fu costretto a lasciare Palermo per poter continuare il suo lavoro, fu vittima di gelosie e cattiverie, fino al fallito attentato dell’Addaura nell’estate del 1989. Le “menti raffinatissime” che egli vide dietro quell’episodio furono probabilmente le stesse che giocarono un ruolo nel tentativo riuscito di toglierlo di mezzo il 23 Maggio di ventinove anni fa.

Un intreccio avvelenato di mafia, servizi segreti, poteri occulti che è emerso negli anni dalle dichiarazioni dei pentiti, dalle prove rinvenute a Capaci, dai collegamenti con altre stragi in cui questo intreccio ha giocato lo stesso determinante ruolo, senza che però nessuna sentenza abbia ancora potuto fare piena luce su questi aspetti, a differenza di quanto avvenuto, almeno per la strage di Capaci, per gli esecutori materiali.

E’ perciò necessario approcciarsi a questo come ad ogni anniversario con sete di verità, rifiutando la vuota retorica di chi, soprattutto tra le istituzioni, tutti gli anni parla di eroi ed esempi senza far niente per cercare giustizia e per far emergere le colpe dello Stato. Sta a noi giovani, i quali portiamo il peso delle idee di Falcone, Borsellino e di tutte le vittime della mafia sulle nostre gambe, lottare affinché venga fatta chiarezza sulle troppe ombre che aleggiano su quella stagione.

Allo stesso modo, sta a noi ricordare e conoscere chi era davvero Giovanni Falcone, un siciliano autentico, timido, decisamente curioso, schivo all’apparenza ma dotato in realtà di grande senso dell’umorismo ed empatia; un lavoratore instancabile, giudice di sagacia ed intuizione, tra i pochi italiani a stringere solide relazioni con inquirenti stranieri, in primis con l’FBI. Dal suo senso del dovere e dalla sua integrità morale dobbiamo saper apprendere con voglia di emulazione più che di ammirazione, perché le mafie non sono sconfitte e perché la mentalità e gli atteggiamenti mafiosi spesso ci stanno più vicini di quanto non crediamo.

Giovanni Falcone non è solo il ricordo di ogni 23 Maggio, è una presenza costante nella vita di chi sceglie la legalità. A cominciare da quella Palermo in cui nacque ottantadue anni fa nel quartiere storico della Kalsa, custode della sua memoria come la casa di via Notarbartolo, sotto la quale le fronde di un grande albero proteggono i disegni, le lettere e i pensieri lasciati da migliaia di persone, in un flusso continuo. C’era una volta a Palermo una stagione di uomini straordinari, e prosegue ancora sulle gambe di ciascuno di noi.






Torna in alto