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A mio figlio racconterò di Diego

Gli inglesi, la battaglia delle Malvinas, il riscaldamento con le note di Life if life, la marcatura di Gentile, la vicinanza con Fidel, Napoli, il Napoli, la gente di Napoli, Italia ’90, l’efedrina, il Mondiale in Sudafrica, le ombre, gli incubi, la speranza, l’epilogo triste.

Diego è stato un romanzo di formazione, più che un essere umano. Ha spaccato tifoserie e unito anime, suscitato rivalità e dato vita a rivoluzioni popolari. Ha sbagliato. Tanto. E più di una volta.

A mio figlio racconterò di non aver visto Diego Armando Maradona giocare dal vivo. Mentirei, se lo dicessi. Eppure Diego è entrato nel cuore dei millennials come un mito familiare, una leggenda che si tramanda con la pelle d’oca addosso, un sussurro: “Quello che ho visto fare a Maradona, io non l’ho visto fare a nessuno”. Pura verità.

Diego ha vinto un Mondiale giocando letteralmente da solo contro tutti: Messico ’86 fu autobiografia di un genio, “aquilone cosmico” come lo descrisse Hugo Morales, il più grande telecronista sudamericano di sempre, quando dribblò l’Inghilterra e relative colonie prima di segnare IL gol, quello che tutti, anche coloro che reputano il calcio uno stupido gioco con 22 uomini in pantaloncini dietro ad un pallone, hanno visto.

Una rete che unì i cuori di tutti gli sportivi, mentre solo quattro minuti prima Diego alzava la mano per battere Shilton, diventando il Robin Hood del fùtbol: un gol di mano che nessuno, in diretta, aveva visto, e che lo consacrò immediatamente alla leggenda. Chi altri sarebbe capace di trasformarsi, nell’arco di pochi minuti, da Robin Hood a Leonardo Da Vinci?

A mio figlio racconterò che Diego ci guastò un Mondiale. Italia ’90 era la nostra festa. Dovevamo vincere noi. E invece quel paffutello numero dieci si presentò con un gruppo di onesti operai argentini e ci eliminò in semifinale. Si giocava a Napoli, la città che con Diego aveva perso la verginità: emozioni forti, qualcuno in tribuna urlava Italia ma nel cuore pensava solo al diez, perchè lui aveva riportato il Sud sui giornali, aveva vinto le sue battaglie contro gli squadroni del Nord, e si era guadagnato per sempre l’amore del popolo.

A mio figlio racconterò che Diego, le sue battaglie, le ha perse: contro la cocaina, contro l’efedrina che gli costò USA ’94, contro vecchi demoni che sono tornati più forti di prima, e che lo hanno schiacciato.






A mio figlio racconterò che Diego, quando lo rivedevo su Youtube, ballava un tango sensuale, di quello che fa venire le vertigini anche solo ad immaginarlo. Ballerino provetto, ma anche abile sovvertitore delle leggi della fisica quando con una punizione da dentro l’area contro la Juve finì sui libri universitari di tutto il mondo.

A mio figlio racconterò che io nel 2010 tifavo Argentina perchè in panchina c’era Diego. E chissenenefrega se non aveva mai fatto l’allenatore in vita sua. C’era Diego con quella barba ispida a suggerire poesie al suo erede, Lionel: padre e figlio, maestro e discepolo, per ricordare al mondo le coordinate della poesia, e pazienza per quell’eliminazione contro i tedeschi, che da sempre preferiscono la grigia prosa.

A mio figlio racconterò che Diego ha preso un pallone e lo ha reso materia di studio. Diego è stato l’ultimo anche quando era il primo, perchè non si entra nel presepe di Napoli se non si è amato ogni singola viuzza dei Quartieri Spagnoli. Diego era sorriso nel dolore, colorato dalle debolezze umane più di tutti, nonostante fosse Dio.

A mio figlio racconterò dello schifoso 2020, e di un freddo giorno di novembre in cui Diego salì a giocare il suo Mondiale al piano di sopra e Dio si riprese la sua Mano. E lo farò tra le lacrime. Perchè per amare Diego non è necessario essere nati a Napoli prima degli anni Ottanta. E’ sufficiente ammirare la Gioconda di Leonardo, ballare il tango o un bolero lento, provare a dribblare il destino almeno una volta, anche a costo di perdere tutto.






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